Riceviamo e pubblichiamo il racconto di Martina Bonfante, giovane volontaria che ha svolto il suo anno di Servizio Volontario Europeo in Belgio presso il centro richiedenti asilo Fedasil di Rixensart.
Raccontare un anno di Sve? Sembra una missione impossibile. Cercando le parole per iniziare questo articolo, mi scorrono davanti tutte le immagini di quest’ultimo anno. Così ricco, così colorato. Sembra ineffabile. E’ difficile poter spiegare quanto e cosa questo anno abbia significato per me. Posso dire che è stato un viaggio, il viaggio più bello della mia vita. E nel mio caso, un viaggio nel mondo.
Alla fine di questo mio Sve posso dire di saper cucinare deliziosi piatti armeni dopo averne bruciacchiati alcuni, di aver imparato a ballare danze tipiche dell’Angola senza sembrare un ippopotamo, di aver migliorato la mira nel giocare a biglie ma mai come ogni ragazzo afgano sa fare. E ancora di aver osservato l’arte del fare le trecce ai capelli delle donne del Camerun, di aver cantato canzoni turche senza saperne il significato, di essere stata presente davanti ai primi passi di un piccolo guineiano, di conoscere a menadito la regione dei grandi laghi in Africa, di aver cercato su Google maps case in mezzo a zone desertiche a ridosso del Turkmenistan e di vedere foto di case in Siria che ora non ci sono più. Ho imparato a parlare lingue che non esistono e piangere insieme a qualcuno senza sapere il perché. Ho mantenuto segreti, ho visto amori nascere e sogni realizzarsi.
Il mio anno nel centro di accoglienza per richiedenti asilo Fedasil in Belgio in realtà, posso assicurare, è stato molto più di tutto questo. Quando sono partita non sapevo bene quali fossero le mie aspettative. Sapevo solo sarebbe stato un anno intenso, pieno di emozioni. E così in effetti è stato. Ho dato tanto ma ho ricevuto molto di più.
Ho visto persone di colori diversi aiutarsi nei momenti di difficoltà.Ho visto che tutti i popoli sorridono nella stessa lingua.Ho ritrovato l’umanità perduta.
Un giorno, una ventina di giovani di una parrocchia era in visita al centro. Tutto era pronto per iniziare l’attività di accoglienza e nel frattempo gli ospiti facevano conoscenza con i bambini del centro. Ad un certo punto, la responsabile dell’attività parrocchiale comincia a fare una carrellata di tutti i bambini, chiedendone la provenienza. Allora M. inizia dicendo di essere iraniano, e poi S. congolese, J. albanese, D. cecena e così via… fino a quando è il momento di E., che non risponde. Allora la signora, molto dolcemente, chiede nuovamente “e tu, da dove vieni?”; E. esita un po’, la guarda e risponde: “dalla mia camera!”.E è nato e cresciuto nel centro di accoglienza in cui si trova con la sua famiglia e tra qualche giorno compirà 5 anni. L’innocenza di un bambino, quel giorno, è stata una delle più grandi lezioni di vita.
Quello che mi ha lasciato questo Sve è la consapevolezza che poco importa da dove una persona venga. Poco importa di che colore sia la sua pelle, che lingua parli, che religione pratichi o come si vesta. Ogni storia è unica e inimitabile. Ed è per questo che a priori, deve esserle riconosciuta piena dignità.
Questo bellissimo viaggio che è stato lo Sve mi ha permesso di rendermi utile e non restare a guardare, di trovare conferme, di stupirmi ogni giorno di fronte a queste. E forse, un po’, di fare la differenza. Questo è il motivo per cui vale la pena fare un anno di Sve.
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