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Pillole dal Rapporto Giovani 2016, una fotografia della condizione dei giovani in Italia

27/06/2016 | News
Pillole dal Rapporto Giovani 2016, una fotografia della condizione dei giovani in Italia

Pillole dal Rapporto Giovani 2016, una fotografia della condizione dei giovani in Italia - - Agenzia Nazionale Giovani

Nove mila giovani intervistati tra i 18 e i 32 anni: questo il campione che ha dato vita al Rapporto Giovani 2016, l’indagine dell’Istituto Toniolo, in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, che rappresenta un osservatorio continuo sulla condizione giovanile. Sono i Millennials a dire la loro, la generazione dei nati tra il 1980 e il 2000, che si è ritrovata a vivere in un contesto difficile, con una crisi economica, con la difficoltà di trovare lavoro e, allo stesso tempo, dover pianificare la transizione alla vita adulta.

L’indagine ha anche una portata internazionale, seppur al momento limitata ai paesi europei più grandi – Spagna, Francia, Germania e Regno Unito, è integrata con i dati dei social network e valuta anche l’impatto di alcuni programmi sperimentali.

Il Rapporto Giovani 2016 si colloca in un contesto di generale insicurezza, chiusura e preoccupazione, dovuti ai recenti attentati terroristici e all’immigrazione extracomunitaria. E sono i sentimenti prevalenti proprio di quei giovani che conoscono e apprezzano la mobilità internazionale e vivono in modo positivo il confronto tra culture.
Il 2015 è stato anche l’anno in cui si sono registrati segnali di ripresa e fiducia nel miglioramento della qualità della vita, segnali che necessitano, però, che il processo di sviluppo e crescita diventi più stabile.
La crescita del capitale umano è l’obiettivo su cui puntare: valorizzare e accrescere competenze, abilità, caratteristiche individuali, che favoriscano la creazione del benessere in tutti campi della vita. L’Unione Europea, in questi anni, ha contribuito in modo significativo ad innalzare il livello e la qualità dell’istruzione e della formazione negli Stati membri attraverso politiche per i giovani, strategie, programmi, accordi.
Il Rapporto Giovani ci aiuta a guardare i punti di forza e di criticità attraverso l’occhio dei giovani e a mettere a fuoco strumenti e opportunità necessari alle nuove generazioni, per far sì che siano al passo con i tempi e possano affrontare le sfide attuali.

L’indagine sulla mobilità internazionale afferma che l’83,4% degli intervistati in Italia è disponibile a trasferirsi per lavoro e oltre il 60% è disposto anche ad andare all’estero, dove le possibilità di occupazione sono maggiori, contro il 30% dei giovani tedeschi che mostrano invece un’alta propensione alla mobilità interna.
Va detto che le nuove generazioni vivono positivamente e in modo naturale la mobilità, che offre loro la possibilità di fare nuove esperienze, confrontarsi con altre culture, migliorare la propria formazione. E questo sentire vale per il 90% del campione complessivo.
In Italia, però, a differenza di altri paesi, si parte anche per necessità: a dirlo è il 90% dei giovani italiani intervistati, contro il 25% dei tedeschi e il 30% degli inglesi, che si muovono più per scelta che per necessità.
I giovani italiani lamentano le insufficienti opportunità di inserimento in percorsi di crescita, il mancato riconoscimento del proprio impegno e valore, la scarsità di finanziamenti nel campo della ricerca e dell’innovazione, gli stipendi bassi, la mancanza di meritocrazia.
I programmi di istruzione, formazione, educazione finanziati dall’UE negli ultimi 20 anni hanno avuto anche l’obiettivo di sostenere la mobilità per migliorare il mercato del lavoro a livello europeo, offrendo maggiori opportunità di scelta a tutti i giovani.
Proprio come accade in Germania e nel Regno Unito, anche i giovani italiani dovrebbero avere maggiori possibilità per il loro futuro, diventando protagonisti nei loro contesti di origine e, al contempo, le politiche nazionali dovrebbero promuovere un processo di sviluppo capace di attrarre giovani da altri paesi. Insomma, andare o restare, dovrebbe essere una scelta e non una necessità!

Scarsa conoscenza ed esperienza di impegno civico e partecipazione: solo il 13,4% dei giovani intervistati è, saltuariamente o in modo continuativo, impegnato in attività di volontariato.
I giovani conoscono molto poco il Servizio civile universale, ma sono disponibili a mettersi alla prova perché lo ritengono uno strumento importante per la crescita personale e formativa, utile per sperimentare un ruolo attivo nella società, per contribuire al bene della comunità e promuovere il capitale sociale. I dati confermano, infatti, che oltre l’80% dei giovani ritiene utile un’esperienza di impegno in favore della propria comunità o in missioni in ambito internazionale.
Le nuove generazioni apprezzano molto la possibilità di combinare il valore sociale dell’esperienza di volontariato, quindi la possibilità di essere protagonisti attivi e di migliorare il contesto in cui si vive, con l’opportunità di acquisire sul campo nuove competenze sia relazionali sia lavorative, insomma ricavare dall’esperienza anche un beneficio individuale.
Al Sud, in particolare, vengono messi in evidenza l’aspetto remunerativo dell’attività di Servizio civile e l’acquisizione di competenze utili per il mondo del lavoro. I più pronti a prenderlo in considerazione sono proprio neet, che non ignorano l’importanza di questo strumento anche come forma di promozione della solidarietà.

In Italia, gli Early school leavers, i giovani che abbandonano precocemente gli studi, sono il 15%, percentuale che rimane ancora al di sopra della media dell’UE, pari all’11,2%. Sono a maggiore rischio di abbandono gli alunni stranieri rispetto agli italiani, gli studenti degli istituti professionali rispetto a quelli degli istituti tecnici e degli indirizzi artistici, i giovani provenienti da contesti svantaggiati: target che contribuiscono ad accrescere la quota dei neet.
In merito all’istruzione terziaria, si rileva che meno di un terzo dei giovani tra 30 e 34 anni in Italia è laureato, pari al 23,9%, a fronte di una media europea del 38,0%: la quota dei laureati nel Mezzogiorno è pari al 19,7%, al Nord è del 25,3%, al Centro del 28,7%. Le donne laureate sono il 29,1% e superano gli uomini di oltre dieci punti, anche se risultano poi penalizzate in ambito lavorativo. Anche gli investimenti in istruzione terziaria sul Pil sono tra i più bassi in Europa.
La decisione di proseguire gli studi o la scelta della carriera formativa sono influenzate da molti fattori: la motivazione personale, il rendimento scolastico, le relazioni tra pari e quelle in famiglia. Proprio quest’ultima influenza significativamente le scelte di studi e carriera, sia per il forte clima di intesa tra genitori e figli, sia per i costi relativi all’istruzione e per la spendibilità dei titoli sul mercato del lavoro.
Proprio quando vengono meno le motivazioni, il rendimento diventa scarso e le relazioni sono vissute in modo problematico, allora si decide di abbandonare gli studi. Questo accade soprattutto in quelle aree del Paese in cui ci sono offerte di impiego poco qualificato e famiglie meno sensibili ai valori dell’istruzione.
Fattore da non sottovalutare è anche la carenza di orientamento, che genera basso profitto e scarse motivazioni e porta molti giovani a prendere decisioni poco in linea con le proprie attitudini e obiettivi professionali. L’insoddisfazione e l’incompatibilità tra le competenze acquisite e quelle richieste dal mondo del lavoro aumentano le difficoltà e riducono l’impegno nel progettare la propria vita. Così, i giovani vanno ad ingrossare la già folta categoria dei neet.
Agli intervistati è stato anche richiesto di valutare la qualità dell’offerta nel settore dell’istruzione: ritengono sufficiente la didattica, mentre considerano insufficiente la condizione delle strutture e dei servivi, soprattutto nel Mezzogiorno.

Il lavoro rimane in assoluto la preoccupazione principale dei giovani, tanto che l’86% considera la disoccupazione come un problema nazionale, insieme alla percentuale dei neet, le persone che non studiano, non lavorano non svolgono percorsi di formazione, che continua ad essere tra le più alte in Europa.
Certo, anche il sistema formativo italiano non aiuta: appare, agli occhi dei giovani, scarsamente integrato con il mercato del lavoro, la scuola è vissuta come luogo di formazione che serve a promuovere le life skills, abilità e conoscenze personali, di ragionamento, capacità di stare con gli altri e di affrontare la vita, piuttosto che le competenze indispensabili nel mondo del lavoro, tanto che solo il 41% dei giovani intervistati considera le competenze acquisite a scuola utili per trovare lavoro.
L’80% degli studenti vorrebbe che la scuola li aiutasse ad accrescere le conoscenze e le abilità personali, il 76,6% desidera imparare a stare con gli altri, il 63,8% vorrebbe ricevere strumenti per affrontare la vita.
Tra quei giovani che hanno un’occupazione, il 91% giudica il lavoro come fonte di reddito, per l’88% è importante per il proprio futuro, l’87,5% lo ritiene utile per metter su famiglia, per l’85% rappresenta l’autorealizzazione. Il 52,8% vorrebbe avere un lavoro migliore, mentre il 44% si dichiara insoddisfatto della propria retribuzione.
Garanzia Giovani, il Piano europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile, ha previsto finanziamenti per i Paesi membri con tassi di disoccupazione superiori al 25%, da investire in politiche di orientamento, istruzione, formazione e inserimento al lavoro per i giovani neet tra i 15 e i 29 anni.
Un’iniziativa concreta che però sta ottenendo risultati modesti rispetto alle aspettative, riuscendo a raggiungere, a partire da maggio 2014, solo un terzo dei neet e ad offrire una concreta opportunità di formazione o lavoro a meno di un neet su dieci.
I valori forniti dall’Istat sui primi effetti del Jobs Act, relativi agli ultimi mesi del 2015, sembrano incoraggianti sia in relazione all’aumento degli occupati sia alla stabilità contrattuale. I dati sono però meno favorevoli per i giovani, perché oltre ai disoccupati è presente un grande numero di inattivi sfiduciati.
Non a caso, le più recenti politiche europee hanno messo in evidenza l’importanza di politiche di istruzione che garantiscano adeguata formazione a tutti gli studenti e programmi educativi e di studio integrati con il mondo del lavoro.

Le relazioni tra pari sono valutate in modo positivo dai giovani. Alunni e insegnanti non nascondono, però, alcuni aspetti critici di relazione a scuola, atti di prepotenza e discriminazione tra compagni ma anche da parte di docenti e dirigenti.
I dati affermano che Il 19,4% degli studenti italiani ha assistito ad atti di bullismo a scuola, mentre il 12,1% è stato testimone del consumo di stupefacenti da parte di coetanei o di episodi di spaccio di droga all’interno della scuola, con una percentuale più alta nei giovani che hanno frequentato l’istruzione o la formazione professionale (16,2%) e residenti nel Centro Italia (14,5%) o nel Nord Ovest (14,4%).
Oltre il 7,4% degli intervistati ha assistito frequentemente ad atti di furto, anche in questo caso con una prevalenza dei giovani che hanno svolto i percorsi di istruzione e formazione professionale (11,1%) e di chi vive nel Nord Ovest (8,7%) e nel Centro (7,5%).
Per quanto riguarda gli atti di prepotenza tra alunni, il 19,4% dei giovani ha dichiarato di avervi assistito frequentemente: il 26,3% sono giovani che hanno studiato negli istituti professionali e nei tecnici; il 19,3% sono studenti che hanno frequentato altri indirizzi; il 16,1% sono studenti dei licei; il 20,3% sono studenti del Sud e delle Isole; il 17,6% sono i giovani del Nord Est.
Solo il 35,5% degli studenti ha risposto di non aver mai assistito ad atti di prepotenza.
Il 10,3% dei giovani dichiara inoltre di aver assistito frequentemente ad atti di grave prepotenza da parte di docenti o dirigenti nei confronti degli alunni e solo il 52,4% dichiara di non avervi mai assistito: il 12,3% sono giovani che hanno frequentato i percorsi di istruzione e formazione professionale, il 10,6% sono liceali, l’8,5% sono studenti dei tecnici.
Più della grave prepotenza, però, secondo i giovani, è presente nella scuola la discriminazione: il 23,6% dei giovani (il 25% sono femmine e il 22,1% maschi) ha dichiarato di aver assistito ad atti di discriminazione tra gli alunni; il 15,7% (il 16,6% sono femmine e il 14,8% maschi) ha assistito con frequenza a comportamenti discriminatori da parte di docenti e dirigenti.
Nonostante i dati sugli atti di prepotenza o illegalità siano preoccupanti, la scuola è considerata dagli studenti italiani un luogo positivo di socializzazione e costruzione di solidi rapporti.

Rispetto agli altri grandi paesi europei, il modello mediterraneo è caratterizzato da una più prolungata permanenza dei giovani in famiglia e dalla presenza di una famiglia forte, dovuta a fattori culturali, a legami familiari intergenerazionali, al tipo di relazione dei genitori con i figli.
Fino ai 25 anni di età, le motivazioni che spingono i giovani a rimanere in famiglia sono soprattutto legate ad impedimenti oggettivi, ad esempio la mancanza di lavoro e le difficoltà nel conquistare una propria autonomia. Oltre quell’età, i motivi sono anche soggettivi, come lo stare bene in famiglia, la possibilità di potersi sperimentare in campo affettivo e lavorativo.
In Italia prevale, più che in altri paesi, una visione positiva della famiglia come luogo in cui si può esprimere se stessi, si trasmettono valori, si riceve supporto, anche nelle decisioni sui percorsi di studio e formazione da intraprendere. All’opposto, la famiglia è percepita a volte come rifugio dal mondo, a volte come prigione, soprattutto quando la lunga convivenza diventa forzata.

Quando, nel 2013, le nascite hanno toccato il punto più basso dall’Unità d’Italia in poi, si è tornati a parlare di interventi in favore della famiglia, di sostegno delle scelte riproduttive, di promozione delle opportunità dell’infanzia.
Per il 2015 il valore reale delle nascite sembra essere sensibilmente più basso rispetto alle previsioni Istat (un numero medio di figli per donna pari a 1,44) sia perché si è ridotto il numero di donne nella fascia d’età tra i 25 e i 35 anni sia perché la crisi ha influito sulla progettualità di vita delle giovani generazioni. I dati mostrano che i neet e i lavoratori non stabili incontrano grandi difficoltà nel processo di transizione all’età adulta, in particolare nelle regioni meridionali del Paese. Mentre, però, nel 2013 le intenzioni di avere un figlio apparivano ridotte, nel 2015 si sono registrati segnali positivi: i giovani hanno manifestato una maggiore propensione ad avere un figlio in un arco di tempo di tre anni.
Certo, molto dipenderà dall’effettiva crescita economica e da politiche pubbliche che consentiranno di trasformare queste intenzioni in azioni concrete.

Non sono positivi i giudizi espressi dai giovani di cinque paesi europei con la più alta percentuale di immigrati presenti sul loro territorio: gli intervistati mostrano atteggiamenti di difesa e chiusura, anche per via dell’alto numero di immigrati e dei problemi generati dalle recenti ondate migratorie. A dirlo sono proprio quelle generazioni che appaiono più aperte al confronto con le altre culture, che viaggiano nel mondo per studio, formazione e lavoro, che apprezzano la mobilità. In particolare, i giovani italiani tendono a considerare straniero il coetaneo che parla con difficoltà l’italiano, piuttosto che il compagno con genitori di nazionalità diversa, e ritengono che gli immigrati peggiorino le condizioni del paese in cui vanno a vivere.
I loro atteggiamenti sono certamente influenzati dalla personale visione del mondo, dai propri valori, cultura e formazione, dalla crisi economica, dalle risorse limitate e l’elevata disoccupazione giovanile. Ma una forte influenza è esercitata anche dal dibattito pubblico e dai media che raccontano e descrivono il fenomeno come inarrestabile e ingestibile, a volte come potenziale minaccia all’ordine pubblico, come contributo al degrado delle città, come rischio sanitario.
Come aiutarci? Indubbiamente, attraverso efficaci politiche nazionali, aumentando la nostra conoscenza, riducendo stereotipi e pregiudizi. Gli ultimi indirizzi di politiche europee spingono gli Stati membri ad offrire ai giovani luoghi ed attività utili alla creazione di relazioni positive tra persone di diversa provenienza, alla formazione della consapevolezza interculturale, al rafforzamento del ruolo educativo della scuola e delle organizzazioni giovanili.

È il cinema la forma di intrattenimento culturale extradomestica più praticata dai giovani: il 32,1% dei giovani intervistati va al cinema più di una volta al mese, il 67,9% meno di una volta. Il 26,2% si definisce assiduo frequentatore delle sale e questa percentuale è di molto superiore al numero di utenti che si definisce assiduo rispetto alle modalità pay tv e pay per view. La possibilità di accedere da casa o dal proprio telefonino ad una ampia offerta di film non impedisce, quindi, ai giovani di andare al cinema: l’aspetto social e la condivisione sembrano avere il sopravvento.
Il film è percepito come forma di intrattenimento ludico più che culturale, il cinema americano è il preferito, i generi più apprezzati sono la commedia, il thriller e l’avventura. Anche il 3d non è ritenuto essenziale ma, potendo scegliere, i giovani preferiscono un film in multiplex piuttosto che in una piccola sala. Il vero ostacolo? Il prezzo. Infatti, chi più frequenta il cinema sono i giovani che lavorano. 
Tra i generi televisivi più seguiti troviamo il TG (spesso visto dal 36,7%) e le serie tv/fiction (spesso viste dal 36,1%), mentre il genere meno amato è la soap (mai per il 52,1%). Sono il TG e i talk show a mettere d’accordo tutti, pubblico femminile e maschile; per la restante offerta, i dati mostrano differenze tra generi definiti più femminili e generi più maschili. Anche il titolo di studio sembra condizionare la scelta del genere televisivo: il TG lo vedono di più i giovani con un titolo di studio medio-alto (il 42,7% ha un diploma, il 42,9% una laurea e il 24% un titolo inferiore al diploma); i reality/talent sono visti prevalentemente da giovani con titoli di studio medio-bassi, il 20,1% sono neet.
Rispetto alle modalità di fruizione, la televisione è ancora il mezzo più utilizzato e rappresenta il 42,5% del campione. In alcuni casi le serie/fiction sono seguite anche in lingua originale con sottotitoli dal 46,8% degli intervistati, il 9,3% le segue senza sottotitoli, il 43,8% dichiara di non aver mai seguito una serie tv in lingua originale. Anche in questo caso il titolo di studio fa la differenza: il 58,2% dei giovani senza un diploma non ha mai seguito una serie/fiction in lingua originale, tra i neet il 51,7% non ha mai fatto questa esperienza.

Sempre più crescente è l’attenzione verso la sharing economy, l’economia della condivisione, che contempla varie forme di condivisione e collaborazione: il consumo collaborativo, l’economia collaborativa, l’economia circolare, l’economia wiki, social media, impresa sociale, crowdfunding, crowdsourcing, open source, open data, e tanto altro! I vantaggi assicurati dalla sharing economy sono sicuramente quelli del risparmio di denaro e dell’impatto sociale. In Italia, il 46% degli utilizzatori di piattaforme sharing è nella fascia d’età 18-34 anni, riconfermando la predisposizione dei Millennials verso queste forme sia per l’utilizzo di prodotti usati, sia per il car e bike sharing e il crowdfunding. La maggior parte di loro utilizza il digitale: internet per il 94%, almeno un social network per l’87%, lo smartphone per l’84%, il 61% lo usa per acquisti di prodotti e servizi. 
La gerarchia dei bisogni è cambiata e la lista di beni e oggetti irrinunciabili non è più la stessa: accesso a beni e servizi senza pagarne gli oneri di proprietà sembra essere uno degli elementi vincenti degli ultimi anni. Ma non solo: la sharing economy è tanto attrattiva anche per il suo aspetto sociale e relazionale.
L’indagine del Rapporto Giovani 2016 su un grande evento come quello dell’Expo di Milano ha confermato la disponibilità dei giovani a partecipare, anche attraverso attività di volontariato, a mettere in campo idee ed esperienze, a sperimentare servizi dal basso. Come a voler dire che dove ci sono occasioni, luoghi, spazi per nuove idee, i giovani scendono in campo e si mettono in gioco, proprio in quei terreni dove solo loro possono utilizzare nuovi strumenti e divenire promotori di innovazione e sperimentazione.

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